Omelia di Don Gianluca. I Domenica di Avvento (A)

 

Domenica 27 Novembre 2016

Dal Vangelo secondo Matteo (24,37-44)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata.
Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

OMELIA DI DON GIANLUCA COPPOLA

Con questa domenica inizia il tempo dell’Avvento. Parola che già in sé ci suggerisce l’arrivo di qualcosa di importante. L’Avvento apre, infatti, all’attesa.
L’attesa di Qualcuno di cui non conosciamo i tempi, ma il Vangelo ci dà la certezza che verrà.
Il 25 dicembre, il giorno di Natale, non è il compleanno di Gesù. Ma è il memoriale del momento in cui Dio ha messo i Suoi piedi in questo mondo. Facendosi uomo ci ha regalato la Salvezza. Il 25 dicembre ricordiamo la sua prima venuta, – certo – però, poi, ci dimentichiamo, spesso, che Dio ritorna ogni giorno durante ogni singola celebrazione eucaristica.
Gesù torna su ogni altare del mondo, come su questo, attraverso la Parola prima, e l’Eucarestia poi: Dio diventa pane e diventa vino, il pane e il vino diventano Dio, Corpo e Sangue di Gesù Cristo.
Il Vangelo della domenica odierna ci informa – anche – di un altro elemento di certezza della nostra fede: ci sarà una venuta definitiva di Cristo.
Gesù tornerà nella Gloria, ma quel giorno, ci dice il Vangelo, le cose non dovranno essere come nei giorni di Noè. Sebbene conducessero, infatti, una vita abbastanza normale, si erano dimenticati dell’Autore di quella vita. Avevano cominciato a pensare e a comportarsi – un po’ come noi- che si potesse vivere mettendo da parte Chi ci ha chiamati alla vita.
Nel linguaggio apocalittico, metaforico, della Bibbia emerge l’ira di Dio. E’ fuori di dubbio che l’amore di Dio per l’umanità non si è mai fermato per un solo istante, ma in quel preciso momento, il Suo cuore era ferito.
Il Vangelo, allora, ci ammonisce. Porta ognuno di noi a guardare, in primis, alla propria condizione esistenziale, affinché, nel momento in cui tornerà, non sarà per noi come un estraneo. Affinché la nostra vita possa essere una reale attesa della Sua venuta.
Israele, il popolo eletto di Dio, ancora non riconosce Gesù, perché Cristo non lo riconosce chi non lo frequenta. Non essere abituati a stare con Lui equivale a non accettarlo, e diventa impossibile, pertanto riconoscerlo.
Gesù, allora, – come sempre – ci mette in guardia e ci indica il tempo di Noè. E’ quello il monito.
Se, come ai tempi di Noè, anche le nostre menti continueranno ad essere concentrate solo su quanto c’è di tangibile nelle nostre vite non saremo in grado di accorgerci neanche del più grande cataclisma naturale.
“Vegliate perché se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro non si lascerebbe scassinare la casa”, ma su cosa dobbiamo vegliare? Qual è la nostra casa? Qual è la casa dove Dio vuole prendere dimora? Qual è il bene più prezioso di Dio da difendere? Sei tu. E’ la tua vita.
Ci sono situazioni, al di là del lutto e della malattia, che fanno male. Sono dolori che ci andiamo a cercare da soli: i peccati.
E’ il peccato che ci lascia le porte della nostra anima aperte, e lascia entrare “il ladro” a rubarci pace e serenità.
Se vigilassimo, non ci lasceremmo uccidere il cuore e l’anima. Se credessimo davvero al fatto che siamo qualcosa di bello, che quando Dio ha creato ognuno di noi, ha superato ogni limite possibile di grandezza, bellezza, meraviglia, – come se ognuno di noi fosse l’unigenito di Dio – le nostre anime sarebbero al sicuro.
E spesso non vegliamo su noi stessi proprio perché siamo incapaci di trovare la bellezza nella nostra esistenza.
Il primo impegno, quindi, della prima settimana di Avvento oltre alla parola “vegliate”, dovrebbe essere, “ámati”.
Amiamoci come Dio ci ama dal Suo cuore trafitto.
Perché vigilare su noi stessi significa, innanzitutto, apprezzarci con tutti i nostri limiti. Anche con i nostri peccati che nel cuore di Dio diventano fumo – se c’è reale desiderio di conversione.
Dobbiamo vegliare sulla nostra vita, capire che è questo il più grande tesoro che Dio ci ha affidato per portare a termine la volontà di Dio.
Quando un giovane andò da Gesù e gli disse: “Signore, ma qual è il primo e il più grande dei Comandamenti?”; Gesù gli rispose, “ama Dio e il prossimo tuo come te stesso”. In realtà non è un solo Comandamento, ma, in qualche modo, tre: amati, ama il prossimo tuo, e arriverai a Dio.
Chi non si ama, chi non capisce che vegliare su se stessi è qualcosa di meraviglioso, è incapace di amare il prossimo e non riuscirà nemmeno ad amare Dio.
Amiamoci, allora, perché Lui ci ama.

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